Si allungano le generazioni di clienti che comprano prodotti della moda e del lusso ma i loro consumi tendono alla polarizzazione: ai due estremi crescono infatti gli acquisti nel mercato del lusso, da una parte, e del più accessibile branded mass dall’altra, che comprende anche l’abbigliamento sportivo, il fast fashion o per esempio il fashion retail. Più in sofferenza, invece, la fascia mediana del premium. Seguono così due direzioni apparentemente opposte le tendenze che sono già emerse quest’anno ma che si consolideranno soprattutto nel 2025, definendo le nuove regole della moda e del lusso raccontate ieri da Federica Levato, senior partner ed Emea leader fashion & luxury di Bain & Company, durante la giornata conclusiva del Milano Fashion Global Summit, organizzato da Class Editori.
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Incertezza ma business solido
Si continuerà quindi a spendere anche per prodotti e accessori alto di gamma, nonostante le incertezze che molte aziende si aspettano l’anno prossimo. A conferma c’è un business globale di 865 miliardi di euro, a chiusura del 2023, dato in crescita per il prossimo esercizio, sempre secondo i dati della società internazionale di consulenza. Del resto, a sostenere il giro d’affari ci sono oggi sei generazioni di consumatori che comprano contemporaneamente fashion & luxury, spaziando da quelli nati intorno al 1945 fino alle classi 2010 e oltre. «Già da bambini, a partire dai 7-8 anni, i più piccoli diventano clienti di questi mercati. Certo, non come decisori di acquisto ma capaci d’influenzare le scelte dei genitori», sottolinea Levato. «Un riflesso di questa nuova demografia dello shopping è che alcuni oggetti, accessori, diventano presto oggetti del desiderio per i giovanissimi. Questo spiega, tra l’altro, l’importanza del beauty che porta con sè anche un’importante esperienza di acquisto», che a sua volta non solo ribadisce l’importanza del negozio fisico per viverla ma anche e soprattutto del mondo digitale, tra tutorial e influencer. In particolare, l’e-commerce vale per i comparti del lusso il 20% degli acquisti mentre, per il mondo allargato della moda, si arriva al 40%. Comunque, chiarisce Levato, «il punto vendita fisico rimarrà preponderante, pur facendo sue progressivamente le nuove tecnologie, proprio perché può far scattare il desiderio di un’esperienza d’acquisto reale».
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Cucinelli: mercato in riequilibrio
In definitiva, il lusso resta solido e aveva ragione Immanuel Kant: «il lusso resta un bene morale che poggia su qualità, artigianato ed esclusività», è intervenuto da Shanghai Brunello Cucinelli, fondatore dell’omonima griffe. «È un mercato sempre solido, anche se si prevede una crescita tendente allo zero. Semmai, il comparto deve ritrovare una sua esplosività, magari attraverso i social network». Le previsioni di Cucinelli per il suo marchio umbro sono di una crescita del 10% l’anno prossimo e di un altro +10% nel biennio 2026-2027, considerando già una componente di prezzo e una a volume. Ma l’anno in corso? «Un esercizio di grande riequilibrio», ha risposto l’imprenditore e direttore creativo dell’azienda che ha archiviato i primi nove mesi del 2024 in crescita del 12%, a quota 920 milioni di ricavi nel terzo trimestre. I consumatori Usa assicurano un 36% del business, quelli europei un altro 36-37% e gli asiatici il rimanente 28-27%, con la Cina al 13%. La Cina rimane un paese importante per Brunello Cucinelli e non solo per il suo mercato (da cui la griffe attinge il 90% del cachemire utilizzato).
La vera sfida dell’Italia
L’Italia che farà in questa nuova geografia del lusso? Servirà più che mai un polo del lusso tricolore? «Non nascerà un polo italiano del lusso», ha ribadito netto Cucinelli. «Forse non ce n’è nemmeno bisogno. Credo che i nostri stimati francesi siano dei gran finanzieri, mentre noi italiani consideriamo le nostre imprese, medie o grandi, come nostri figlioletti da custodire, da lasciare in eredità. In realtà, il problema è un altro», ha concluso l’imprenditore. «Chi verrà nelle nostre fabbriche a lavorare. Non conosco un genitore che consigli ai propri figli di fare l’operaio. È una questione di dignità morale ed economica e persino di luoghi di lavoro: coloro che lavorano in fabbrica non hanno finestre, quelli che lavorano in ufficio sì».
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