Per considerarsi sicuro, e quindi legittimare la procedura accelerata di identificazione e rimpatrio in territorio albanese prevista dal protocollo Italia-Albania, un paese di origine deve essere tale “in modo generale e uniforme”. Se invece una nazione, pur essendo compresa nell’elenco dei paesi considerati sicuri dalla Farnesina, di fatto non lo è per alcune categorie di persone (appartenenti alla comunità LGBTQ+, vittime di violenza di genere incluse le mutilazioni genitali femminili, minoranze etniche e religiose, accusati di crimini politici, condannati a morte, sfollati climatici), in ragione dei principi affermati dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea, vengono meno i presupposti di applicazione della procedura accelerata in frontiera e quindi diventa illegittimo trattenere il migrante nei centri di rimpatrio in territorio albanese.
Con la conseguenza, come previsto dal Protocollo Italia-Albania, che l’Italia dovrà trasferire immediatamente i migranti fuori dal territorio albanese e rimettere in libertà sul territorio italiano coloro che richiederanno protezione. A questo scenario non esistono “alternative giuridicamente ammissibili”.
Con una serie di decreti fotocopia depositati ieri, la giudice Silvia Albano, della sezione immigrazione del tribunale di Roma, non ha convalidato il trattenimento presso il centro albanese di Gjader di 12 migranti provenienti da Egitto e Bangladesh in quanto considerati paesi non sicuri.
Aprendo di fatto a una disapplicazione del protocollo firmato dal presidente del consiglio Giorgia Meloni e del premier albanese Edi Rama (siglato il 6 novembre 2023 e ratificato dalla legge n.14/2024) che ha portato alla costruzione in territorio albanese di un’area destinata alla realizzazione delle strutture per le procedure di ingresso, ubicata nel porto di Shengjin e di un’area nell’entroterra presso la località di Gjader destinata alla realizzazione delle strutture per l'accertamento dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale e per il rimpatrio dei migranti non aventi diritto all'ingresso e alla permanenza nel territorio italiano. Un’operazione in cui il governo Meloni ha previsto di investire 600 milioni in 5 anni che ora, secondo la segretaria del Partito democratico Elly Schlein, potrebbero dare luogo a un’ipotesi di danno erariale. Mentre il leader della Lega Matteo Salvini ha inveito contro i giudici di sinistra, pro-migranti e pro-Ong che cercano di smontare le leggi dello Stato”.
Il protocollo
Nell’esaminare la posizione di un cittadino del Bangladesh, il tribunale monocratico di Roma è partito da quanto prevede il protocollo Italia-Albania che consente «l’ingresso e la permanenza in territorio albanese dei migranti al solo fine di effettuare le procedure di frontiera o di rimpatrio previste dalla normativa italiana ed europea”. Il che, ha osservato la giudice Albano, rende applicabile l’art. 28-bis del dlgs n° 25/2008 (Attuazione della direttiva 2005/85/CE recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato) il quale subordina la procedura accelerata a due condizioni. La prima è che il richiedente sia stato fermato per aver eluso o tentato di eludere i controlli di frontiera, cosa impossibile nel caso di specie visto che in Albania possono approdare solo persone “imbarcate su mezzi delle autorità italiane all'esterno del mare territoriale della Repubblica o di altri Stati membri dell'Unione europea, anche a seguito di operazioni di soccorso”. La seconda condizione, invece, àncora la legittimità della procedura accelerata di frontiera e di rimpatrio alla provenienza del migrante richiedente protezione da uno stato di origine sicuro.
La decisione
Ma su questo aspetto il tribunale ha ritenuto non poter prescindere da quanto affermato dalla sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea (Grande Sezione del 4/10/2024, causa C-406/22) secondo cui un paese di origine non può essere considerato sicuro “qualora talune parti del suo territorio non soddisfino le condizioni sostanziali per una siffatta designazione”. Per essere considerato tale è necessario dimostrare che in quel paese “in modo generale e uniforme, non si ricorre mai alla persecuzione quale definita all'articolo 9 della direttiva2011/95, a tortura o pene o trattamenti inumani o degradanti e che non vi sia alcuna minaccia dovuta alla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato internazionale o interno». Nel caso di specie il Bangladesh, osserva il tribunale di Roma, “è definito Paese di origine sicuro ma con eccezioni per alcune categorie di persone. Pertanto, ha concluso il tribunale, “non sussiste il presupposto della procedura accelerata”.
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