Casse di previdenza fuori dal concordato preventivo
Casse di previdenza fuori dal concordato preventivo
Secondo l’Associazione degli enti previdenziali privati (Adepp) non c’è nessun effetto sulla contribuzione dei professionisti

di di Simona D’Alessio 28/03/2024 02:00

Le Casse di previdenza private marcano la distanza dal concordato preventivo biennale (disciplinato dal decreto legislativo 13/2024), mettendo nero su bianco come «non produca alcun effetto» riguardo agli obblighi contributivi dei professionisti iscritti. E, così, si aggiunge un (nuovo) tassello al «puzzle» dei provvedimenti fiscali e contributivi che, nello scorrere degli anni, hanno visto la «levata di scudi» del comparto per le iniziative del legislatore in contrasto con i dettami della Corte Costituzionale che, con la sentenza n. 7 del 11 gennaio 2017, ha riconosciuto la necessità di garantire l’indipendenza degli Enti. È di ieri la presa di posizione dei presidenti degli Istituti pensionistici e assistenziali riuniti nell’Adepp che, in una nota, hanno chiarito come la disposizione presente all’articolo 30 del provvedimento, «se applicata alle Casse, si rivelerebbe lesiva della loro autonomia gestionale, organizzativa e contabile», come sancito dal pronunciamento della Consulta di sette anni fa, scaturito dal ricorso presentato in merito all’imposizione della «spending review» (il «taglio» dal 5% al 15% dei consumi intermedi delle pubbliche amministrazioni per riversarne i proventi allo Stato deciso dal governo di Mario Monti con le leggi legge 135/2012 e 174/2013) dalla Cassa dottori commercialisti (Cdc).

Nessun effetto sulla contribuzione

Ed è proprio il suo numero uno, Stefano Distilli, a precisare a ItaliaOggi che «il tema dell’irrilevanza del concordato preventivo ai fini della determinazione della base imponibile su cui calcolare i contributi previdenziali obbligatori dovuti alle Casse è già stato affrontato e risolto, in occasione di un analogo provvedimento del 2003. Già allora, infatti, era stato chiarito che spetta ai singoli Enti adottare i provvedimenti necessari per assicurare l’equilibrio di bilancio, tra cui rientrano anche quelli sulla determinazione dell’entità della contribuzione. Principi, questi», argomenta, «contenuti sia nel decreto legislativo 509/94 (il primo sulla privatizzazione delle Casse, ndr) sia nella legge 335/95, che costituisce normativa speciale, e non può essere derogata, se non con espresse modifiche». Pertanto, dichiara Distilli, «per il calcolo della contribuzione dovuta, è necessario continuare a far riferimento al reddito prodotto. E non a quello oggetto di concordato fiscale». In passato vi sono stati altri episodi affini, su cui il settore ha espresso contrarietà: per esempio, la legge 25/2022 in cui fu convertito il cosiddetto «decreto sostegni» (41/2021) che stabiliva la «rottamazione» delle somme sotto i 5.000 euro iscritte a ruolo per un decennio (dal 1° gennaio 2000 al 31 dicembre 2010) per soggetti con redditi inferiori ai 30.000 euro. E, prima ancora, il «saldo e stralcio» incluso nella manovra economica per il 2019 (legge 145/2018).

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