L’input (prompt) era: «Leningrado, anno 1943. In un caffè Shostakovic e un suo giovane allievo compongono un inno alla resistenza sovietica contro i tedeschi».
Ed è l’unica cosa che ho fatto io, tre secondi ci sono voluti. Poi Gem AI ha scritto un racconto passabile, l’immagine l’ha creata ChatGpt. In totale non più di 20 secondi complessivi per buttar giù con l’Intelligenza artificiale questo affresco di guerra, corredato di illustrazione.
Arrivederci, è stato bello fare un lavoro intellettuale creativo, direbbe qualcuno. Riscoprire la manualità: mi sa che ci tocca, aggiungerebbe qualcun altro. O forse no? Forse servirà sempre qualcuno che sappia mettere insieme storia, arte, fantasia, e dare uno stimolo senza il quale l’IA rimarrebbe strumento inerte? Sarebbe il caso di chiederlo direttamente a lei…
RACCONTO FATTO DALL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE
La neve, sporca e grigia, si insinuava tra le crepe del marciapiede, mentre un vento gelido sibilava attorno agli angoli del caffè «Meduza». All'interno, un'atmosfera pesante, quasi palpabile, contrastava con il tiepido bagliore delle lampade a petrolio. Dmitrij Šostakovic, il viso scavato da anni di privazioni e preoccupazione, sedeva curvo su un tavolo di legno consumato, le dita lunghe e ossute che pizzicavano nervosamente una melodia su un foglio ingiallito. Di fronte a lui, il giovane allievo, Boris, appena ventenne, gli occhi pieni di una miscela di ammirazione e timore reverenziale, annotando freneticamente su un quaderno. Fuori, le sirene antiaeree fischiavano, un suono familiare e inquietante che si era ormai integrato nel tessuto stesso della vita di Leningrado assediata. Ma all'interno del caffè, il suono delle penne sulla carta e i sussurri sommessi dei compositori dominavano sul fragore della guerra.
«No, Boris, troppo sentimentale», mormorò Šostakovic, la sua voce roca come una pietra levigata dall'acqua. «Deve essere più… potente. Un grido, un pugno nello stomaco del nemico». Boris annuì, il viso teso dalla concentrazione. «Ma Maestro, come possiamo esprimere la disperazione, la fame, la perdita… e allo stesso tempo la resistenza indomita del nostro popolo?». Šostakovic si alzò, andò alla finestra e guardò la distesa desolata della città. «Non dobbiamo dimenticare la disperazione, Boris. Deve essere presente, ma non deve spezzare lo spirito. La musica deve riflettere la nostra sofferenza, sì, ma anche la nostra forza, la nostra determinazione a sopravvivere. Deve essere un inno non solo alla resistenza, ma alla speranza».
Si girò, gli occhi ardenti. «Pensa alla resistenza dei nostri soldati, al coraggio dei nostri cittadini. Pensa alle mamme che condividono l'ultimo pezzo di pane, ai bambini che cantano nonostante la fame. Pensa a Leningrado che resiste.»
Šostakovic tornò al tavolo, e iniziò a dettare, la sua voce ora chiara, vibrante di una nuova energia. Boris seguì, la sua mano veloce a trascrivere le note. Una melodia cupa, ma dignitosa, prese forma, carica di sofferenza ma permeata da una tenacia incrollabile. Il tema principale, un lamento profondo, si trasformava gradualmente in un inno potente e maestoso, una marcia trionfale che celebrava la resistenza del popolo sovietico, un'ode alla speranza che persisteva anche nell'ombra della morte. La melodia, semplice ma straziante, era un riflesso della loro città assediata, ma soprattutto un'affermazione di vita, un grido che risuonava ben oltre le mura di Leningrado, un inno alla resistenza che avrebbe ispirato l'anima di una nazione in guerra.
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