Per le imprese ci vorrebbero dai 30 ai 100 mld
Per le imprese ci vorrebbero dai 30 ai 100 mld
Nicola Rossi: non bastano certo le noccioline per riuscire a far loro passare il guado. Chiudere una società ci vuol poco, il problema è riaprirla

di di Alessandra Ricciardi 26/03/2020 08:18

Una chiusura protratta del sistema produttivo sarebbe «devastante» per l'economia italiana. «Un sistema economico non si accende e si spegne senza conseguenze... alla riaccensione ci saranno imprese che non riapriranno, lavoratori senza più lavoro», ragiona Nicola Rossi, economista, da anni analista con il centro studi Bruno Leoni, presidente del comitato scientifico della Fondazione Italia-Usa. Ecco perché «dovrebbe essere compito ed interesse del sindacato pretendere che le imprese adottino tutte le dovute precauzioni per evitare il contagio tra i lavoratori e al tempo stesso però non si fermino e continuino ad operare«. Rossi non è ottimista sulle prospettive. La recessione? «Temo sia inevitabile, occorre evitare che si trasformi in una depressione di lunga durata. Non sono affatto sicuro che ci si riesca...». E il sostegno alle sole imprese potrebbe costare «tra i 30 e i 100 miliardi».

Domanda. L'ultimo decreto legge approvato dal consiglio dei ministri prevede uno stato emergenziale che potrebbe durare fino al 31 luglio. Che cosa succederebbe se fino ad allora dovessero essere chiuse le attività produttive? A quanto ammonterebbero le perdite per l'economia? E quanto tempo servirebbe per rientrare?

Risposta. Ho la sensazione che molti pensino che un sistema economico possa essere spento e poi riacceso senza particolari conseguenze. Temo non sia così. Al momento della riaccensione il sistema non è più quello che abbiamo spento. Alcune imprese saranno scomparse. Alcuni lavoratori avranno perso il lavoro o non avranno trovato il lavoro che attendevano. Le reti di fornitura si saranno qui e là spezzate. E non si dimentichi che anche in una emergenza i concorrenti non dormono. In una guerra è il capitale fisico che viene danneggiato e deve essere ricostruito. In una crisi come quella che attraversiamo a perdersi sono il capitale imprenditoriale e quello umano. E non è facile ricostruirli. L'unica strada è evitare che si disperdano intervenendo immediatamente e massicciamente per tenere in vita le imprese. Se ciò non accadesse dovremmo prepararci a conseguenze economiche molto serie, devastanti.

D. Come tenere in piedi le imprese? Bastano gli interventi di cassa integrazione disposti dal governo?

R. Sono una parte della risposta necessaria, occorre soprattutto fornire alle imprese liquidità, facilitando l'accesso al credito e dilazionando i pagamenti fiscali e previdenziali.

D. Le imprese chiedono di ridurre le limitazioni alla produzione, i sindacati di allargarle per evitare il diffondersi del virus. Come se ne esce?

R. Credo che sia difficile non comprendere le ragioni di lavoratori che temono per la loro salute. Ma dovrebbe essere compito ed interesse del sindacato pretendere che le imprese adottino tutte le dovute precauzioni per evitare il contagio del virus e al tempo stesso però non si fermino e continuino ad operare. Al momento dell'uscita dalla crisi potrebbero essersi aperte opportunità di lavoro oggi non presenti (si pensi alle sole consegne a domicilio). L'impatto complessivo della crisi sarà anche conseguenza , come sempre, della nostra capacità di adattamento che sappiamo essere piuttosto ridotta.

D. L'economia italiana, che già cresceva poco, è ufficialmente in recessione?

R. Ce lo diranno i dati del primo trimestre, ma credo non sia difficile prevederlo. La recessione temo sia inevitabile ma bisogna evitare che si trasformi - come è accaduto per la crisi del 2007-2008 - in una depressione di lunga durata. Personalmente non sono affatto sicuro che ci si riesca.

D. A bloccarsi è solo il motore produttivo del Nord, o anche il Sud?

R. Ho l'impressione che, per quanto diversificata, la recessione interesserà il paese nella sua interezza. Fra il 2008 ed il 2012 il prodotto centro-settentrionale si è contratto del 6,3%. Quello meridionale del 10%. Non c'è da farsi molte illusioni. In casi come questi le debolezze strutturali del Mezzogiorno emergono.

D. Il governo ha messo sul piatto 37 miliardi, altri ne metterà ad aprile. Quanti ne servirebbero secondo lei per consentire all'economia di non deflagrare?

R. È molto difficile fare valutazioni. Fabiano Schivardi su lavoce.info ha stimato che il solo sostegno alle imprese potrebbe costare, a seconda delle ipotesi che si fanno, fra i 30 ed i 100 miliardi di euro. Ma naturalmente, nel caso migliore, il costo verrebbe semplicemente trasferito sui bilanci delle banche attraverso una moratoria sui debiti anche più ampia di quella già ipotizzata. E, con ogni probabilità, non tutte le banche sarebbero in grado di resistere. Altre risorse potrebbero così rivelarsi necessarie.

D. Il Patto di stabilità è stato sospeso, ma i nostri finanziamenti vanno sempre a debito. Rischiamo di avere un debito pubblico incontrollabile, come già avvenuto in passato?

R. Per la precisione, il Patto di stabilità non è stato sospeso. È stata semplicemente attivata la clausola di emergenza per eventi eccezionali prevista dallo stesso Patto. Tutti hanno salutato questo evento con soddisfazione. La realtà è che potremo aggiungere nuovo debito a quello preesistente. A quali condizioni il nuovo debito verrà sottoscritto? Al di là delle gaffes, il sostegno della BCE è chiaro e indiscutibile. Ma come si è visto nei giorni scorsi basta uno stormir di fronde per vedere lo spread balzare a livelli di guardia.

D. Quanto ci costerebbe ricorrere al Mes ed accettare la ristrutturazione del debito?

R. Se il Mes rimane quello che è, il costo sarebbe dato dalle condizioni che accompagnerebbero l'eventuale concessione di un prestito e che verrebbero fissate in un memorandum, contenente un programma di aggiustamento macroeconomico. Quel memorandum sarebbe, però non già il costo dell'accesso alle risorse del Mes (qualunque creditore chiede un qualche impegno al debitore) ma sopra tutto il costo dei nostri comportamenti pregressi. La Germania, dopo anni di pareggio di bilancio, può permettersi un intervento di dimensioni molto significative. Noi no, perchè quando potevamo mettere fieno in cascina abbiamo preferito spendere - in spesa pubblica corrente - risorse che non avevamo. Possiamo prendercela solo con noi stessi.

D. Secondo lei è all'orizzonte, parlando del dopo, il ricorso alla patrimoniale ?

R. Mi auguro sinceramente che nessuno sia talmente fuori di testa da immaginare, in questa situazione, di raccogliere risorse attraverso una patrimoniale. Piuttosto stiamo attenti a non vedersi gonfiare, nella crisi, il portafoglio di partecipazioni dello Stato.

D. Il coronavirus ha messo in luce un sistema anche normativo oltre che istituzionale caotico e spesso contraddittorio.

R. Direi che i limiti della nostra normativa in tema di lavori pubblici sia già emerso con chiarezza a Genova, in occasione della ricostruzione del ponte: abbiamo eliminato le procedure usuali per poter garantire una costruzione celere del nuovo ponte. Bisognerebbe prenderne atto. Così come una riflessione sulla efficienza ed efficacia di un sistema sanitario regionalizzato sarebbe opportuna.

D. In che direzione?

R. C'è da domandarsi se per alcune Regioni, soprattutto del Sud, non sarebbe opportuno procedere con un'organizzazione centralizzata del sistema sanitario. Ci auguriamo che il Mezzogiorno non viva l'esperienza della Lombardia e dell'Emilia-Romagna ma se, per caso, ciò accadesse emergerebbe - temo - lo stato della sanità meridionale e l'efficienza delle Regioni meridionali nell'organizzarla.

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