Licenziamenti, il repechâge non fa più paura
Licenziamenti, il repechâge non fa più paura
Nuova sentenza della Corte costituzionale sul Jobs act. La possibilità di ricollocare in azienda il lavoratore licenziato  determina l’illegittimità del licenziamento, ma con una tutela soltanto risarcitoria, non anche di reintegrazione nel posto di lavoro

di di Daniele Cirioli 17/07/2024 02:00

Il repechâge non è più uno spauracchio. La possibilità di ricollocare in azienda il lavoratore licenziato, infatti, determina l’illegittimità del licenziamento, ma con una tutela a favore del lavoratore solo indennitaria, non anche di reintegrazione nel posto di lavoro. Reintegrazione che scatta, invece, per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo avvenuto su fatto insussistente, come ad esempio la soppressione di un posto di lavoro che in realtà non c’è stata. Lo stabilisce la Corte costituzionale con la sentenza n. 128/2024 depositata ieri dichiarando l’illegittimità dell’art. 3, comma 2, del dlgs n. 23/2015 relativo ai licenziamenti economici.

Con sentenza n. 129/2024 depositata sempre ieri, inoltre, la Corte ha ritenuto non fondata la questione d’illegittimità con riferimento a un licenziamento disciplinare basato su un fatto per il quale la contrattazione prevede una sanzione conservatrice.

I licenziamenti per giustificato motivo oggettivo

La prima sentenza riguarda la tutela dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo e, nello specifico, l’ipotesi in cui sia dimostrata l’insussistenza della ragione del licenziamento. In base al Jobs Act (dlgs n. 23/2015), qualora si tratti di licenziamento disciplinare c’è la tutela della reintegra; invece, qualora si tratti di licenziamento per giustificato motivo oggettivo c’è la sola tutela indennitaria. Sul punto il tribunale di Ravenna ha sollevato questione di legittimità costituzionale, accolta dalla Corte costituzionale.

La disciplina generale dei licenziamenti

Il licenziamento, spiega la Corte, salvo specifici casi, non può essere senza causa, ossia acausale (ad nutum). Infatti, deve sempre fondarsi su una causa declinata come «giusta causa» (ad esempio inadempienze gravi del lavoratore che minano la fiducia del datore di lavoro) o come «giustificato motivo» (notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del lavoratore) o da «ragioni inerenti all’attività produttiva, organizzazione del lavoro e regolare funzionamento di essa».

La discrezionalità del legislatore

La disciplina relativa alle conseguenze dell’illegittimità dei licenziamenti (la tutela a favore dei lavoratori), invece, è nella discrezionalità del Legislatore, a patto che risulti sufficientemente dissuasiva del recesso acausale. Dal 1970 fino al 2012 la conseguenza principale è stata la reintegra del lavoratore nel posto di lavoro (famoso art. 18).

Prima la riforma Fornero (anno 2012) e poi quella del Jobs Act (anno 2015) hanno attenuato le conseguenze dell’illegittimità del licenziamento. Nell’anno 2012, spiega la Corte, fa esordio la nozione di «fatto insussistente» nel caso di licenziamenti per giustificato motivo oggettivo che, però, scompare nella successiva riforma del 2015. Oggi, dunque, la tutela per l’illegittimo licenziamento per motivo oggettivo è sempre e soltanto quella indennitaria (mai reintegratoria).

Le conseguenze dell’illegittimità

Sussistano o meno il fatto o la ragione indicati dal datore di lavoro a motivo del licenziamento per motivo oggettivo, dunque, consegue sempre e comunque il risultato del licenziamento del lavoratore. Ciò si traduce, spiega la Corte, nell’autorizzare i licenziamenti senza causa, ovvero pretestuosi che si collocano al confine con i licenziamenti discriminatori. Anzi, aggiunge la Corte, la pretestuosità di un tale licenziamento può veramente celare una discriminazione che, se provata dal lavoratore, renderebbe applicabile la tutela della reintegra. In conclusione, la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale della norma del Jobs Act nella parte in cui non prevede che la reintegra si applichi al caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, qualora venga dimostrata l’insussistenza del fatto indicato (motivo oggettivo) dal datore di lavoro.

Cosa succede se non si tenta il ricollocamento

Infine, approvando una consolidata giurisprudenza, la Corte ritiene corretto che, ai fini della giustificatezza del licenziamento per motivo oggettivo, sia anche verificata l’impossibilità di un ricollocamento del lavoratore in azienda, anche in altra posizione lavorativa. Tuttavia, in tal caso, non essendoci vizi di illegittimità costituzionale, per i giudici della Consulta prevale la volontà del Legislatore: se l’azienda non osserva l’obbligo di repechâge, il licenziamento è illegittimo ma tutelato soltanto da un’indennità (fino a 36 mensilità) e non anche dalla reintegra nel posto di lavoro.