Dichiarazioni verdi certificate per porre un freno al greenwashing
Dichiarazioni verdi certificate per porre un freno al greenwashing
Imprese e professionisti dovranno utilizzare standard europei per le asserzioni ambientali su beni e servizi. Il Parlamento Ue ha dato via libera alla direttiva Green Claims

di di Vincenzo Dragani 24/03/2024 02:00

Dopo la repressione, la prevenzione. All’indomani dell’istituzione della “black list” europea delle dichiarazioni ambientali che costituiranno, con presunzione di illegalità, greenwashing, la stessa Unione europea lavora alle regole che permetteranno invece ad imprese e professionisti di formulare asserzioni verdi non ingannevoli, e quindi di operare sotto una presunzione di legalità. Le regole per il corretto marketing ambientale arriveranno con la c.d. direttiva “green claims”, quale specifico provvedimento Ue (già licenziato dal Parlamento Ue lo scorso 12 marzo 2024 ed ora in attesa di essere esaminato dal Consiglio Ue) dedicato agli standard da osservare per conferire veridicità alle “asserzioni verdi” utilizzate per la promozione di beni e servizi.

Il contesto normativo

Il provvedimento in itinere segue la direttiva 2024/825/Ue, atto che ha riformulato (appena all’inizio del marzo 2024) la disciplina madre Ue sulla tutela dei consumatori, inserendo nelle liste delle pratiche commerciali ingannevoli specifiche fattispecie di greenwashing, in modo da agevolarne (anche dal punto di vista probatorio) identificazione e persecuzione.

Tra le condotte inserite dalla direttiva 2024/825/Ue nella “black list” (della riformulata direttiva 2005/29/Ce) figurano, lo ricordiamo, dichiarazioni ambientali generiche e non dimostrabili nonché marchi di sostenibilità non basati su sistemi di etichettatura legalmente riconosciuti. La direttiva in corso di approvazione sui “green claims” si inserisce in tale quadro repressivo, fissare standard minimi di attendibilità cui le dichiarazioni ambientali (marchi compresi) dovranno rispondere, con la duplice finalità di: prevenire l'utilizzo di asserzioni ingannevoli, che porterebbero imprese e professionisti a risponderne a titolo di "greenwashing" ai sensi della direttiva 2005/29/Ce; far pervenire ai consumatori informazioni commerciali più chiare, circonstanziate, trasparenti e credibili sulle effettive qualità "green" dei beni e servizi.

Le nuove disposizioni riguarderanno un particolare novero delle asserzioni ambientali volontarie disciplinate dalla rinnovata direttiva 2005/29/Ce, ossia quelle "esplicite", coincidenti (secondo la nuova definizione data dal provvedimento in itinere) con quelle espresse "in forma testuale o riportate in un marchio ambientale".

Imprese e professionisti dovranno, prima di rendere pubbliche le proprie dichiarazioni ambientali (marchi compresi): farsi certificare tali asserzioni da soggetti verificatori riconosciuti dalle pubbliche autorità come rispondenti ai requisiti minimi di attendibilità previsti dalla direttiva in itinere; fornire nella fase della loro comunicazione al pubblico tutte le informazioni previste dalla medesima direttiva.

La certificazione delle dichiarazioni ambientali

In particolare, le asserzioni ambientali dovranno essere sottoposte ad un preventivo procedimento di valutazione che ne attesti la veridicità in relazione a specifici requisiti, tra cui: scientificità, completezza, fonti e accuratezza dei dati posti a fondamento; riferibilità delle qualità all'intero prodotto o meno; significatività dei dati in relazione all'intero ciclo di vita del prodotto; presenza o meno di maggior sostenibilità dei prodotti promossi rispetto a quelli della categoria.

L'attestazione delle asserzioni dovrà essere effettuata rivolgendosi a soggetti verificatori che rispondono ai requisiti previsti dalla direttiva in parola, i quali all'esito della valutazione redigeranno, se del caso, un "certificato di conformità" della dichiarazione o del marchio alle prescrizioni normative.

Gli standard di comunicazione

La comunicazione commerciale delle dichiarazioni dovrà essere effettuata in modo da trasmettere al pubblico quantomeno i seguenti dati: studi e calcoli utilizzati per misurare e valutare gli impatti ambientali; spiegazione dei risultati ottenuti; informazioni sull'uso appropriato del prodotto al fine di ridurne gli impatti ambientali; certificato di conformità elaborato dal verificatore accreditato ed identificabile. Il tutto da rendere accessibile tramite l'asserzione, ed in forma fisica o digitale (anche tramite link, Qr code e simili). Dalla complessa procedura, come emerge dalla parte motiva della direttiva, deriveranno per gli operatori economici oneri ed onori. Tra gli oneri, vi saranno i costi che imprese e professionisti dovranno affrontare per l'attestazione della veridicità delle asserzioni. Tali costi, chiarisce l'Ue, dipenderanno dalla natura e dalla complessità delle dichiarazioni, e potranno andare dai 500 euro relativi all'attestazione di una asserzione relativa ai materiali utilizzati nella produzione di un bene ai 54 mila euro per la verifica dell'impronta ambientale di un’intera organizzazione. Tra gli onori invece: l’operare in un mercato con prodotti che concorreranno in condizioni di parità dal punto di vista della comunicazione di sostenibilità; minori oneri burocratici per attestare la fondatezza delle asserzioni, che avverrà secondo un unico sistema condiviso a livello Ue; maggior protezione (come accennato) da accuse di greenwashing, ma non di impunità, poiché la certificazione di conformità non pregiudicherà comunque eventuali valutazioni delle Autorità ai sensi della normativa sulla tutela dei consumatori.

La stretta sul rilascio dei marchi ambientali

La direttiva in corso di approvazione detterà ulteriori prescrizioni anche per i "sistemi di etichettatura" ambientale, ossia i particolari sistemi di certificazione che attestano che un prodotto, un processo o un professionista soddisfa i requisiti per l'assegnazione di un marchio ambientale. E questo da un duplice versante: da un lato stabilendo requisiti minimi per gli enti verificatori che potranno legittimare l'uso di marchi ambientali; dall'altro restringendo il novero dei sistemi di etichettatura, pubblici e privati, autorizzati ad operare. Infatti, tutti i sistemi vigenti dovranno, per poter continuare ad operare, adeguarsi alle condizioni della nuova direttiva. I futuri sistemi, invece: se pubblici, dovranno essere preventivamente autorizzati dalla Commissione Ue; se privati, dovranno essere approvati dai singoli Stati membri, ma potranno esserlo solo se offriranno un valore aggiunto in termini di "ambizione ambientale".

Le tempistiche per l’operatività

Lo schema di direttiva, presentato dalla Commissione Ue, è stato (come accennato) esaminato in prima lettura con esito favore dal Parlamento Ue lo scorso 12 marzo 2024. Nell’esprimere la propria posizione, l’Assemblea europea ha addirittura proposto, mediante emendamenti, regole più severe in materia, tra cui: maggior qualità delle prove scientifiche da porre a fondamento delle asserzioni; analiticità per le dichiarazioni formulate da industrie altamente inquinanti; controllo particolare sulle dichiarazioni ambientali veicolate da piattaforme online. L’iter legislativo proseguirà dopo le elezioni europee, conservando la votazione espressa dall’Aula del Parlamento Ue piena validità giuridica nella futura legislatura. In ogni caso, l’iter della direttiva in parola non inciderà sull’operatività della citata (altra) direttiva 2024/825/Ue sulla repressione del greenwashing, le cui disposizioni dovranno dagli Stati membri essere trasposte sul piano nazionale entro il 27 marzo 2026 e applicate dal successivo 27 settembre; trasposizione che in Italia avverrà plausibilmente tramite l'aggiornamento del dlgs 206/2005, il provvedimento recante il "Codice del consumo", già usato per contrastare le condotte di greenwashing ma ad oggi privo di specifiche disposizioni in merito.

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