Manfredi: l’Ilva, è una bomba sociale
Manfredi: l’Ilva, è una bomba sociale
Se chiude, il Sud perde lo 0,7% del suo pil e 20 mila posti. E nessun investitore privato andrebbe a mettersi nel ginepraio che oggi è l’Ilva, con 2 milioni di perdite al giorno e almeno 1,1 miliardi di costo per la bonifica dell’insediamento

di di Alessandra Ricciardi 15/11/2019 08:17

Nessun investitore privato, che abbia intenti speculativi, andrebbe a mettersi nel ginepraio che oggi è l'Ilva. Investimento troppo costoso e con rendimenti incerti. E con il rischio di finire anche in galera». Francesco Manfredi, prorettore dell'Università Lum Jean Monnet di Bari e direttore della Lum School of Management, da economista aziendale mette in fila un po' di cifre: 2 milioni di perdite al giorno per il solo stabilimento di Taranto, 1,1 miliardi di costo per la bonifica dell'insediamento, che considerati gli eventuali imprevisti salgono tranquillamente a 1,5 miliardi. Ci si aggiunga la crisi congiunturale del settore siderurgico ed è fatta: «L'Ilva adesso non la prende nessuno. Meglio rinegoziare gli accordi con Arcelor-Mittal».

Domanda. Professore, è vero che se salta l'Ilva entriamo definitivamente in recessione?

Risposta. Chiudere l'Ilva significa perdere lo 0,2% del pil nazionale e tecnicamente significa essere in recessione. Uno 0,2% che per il Sud si traduce nello 0,7%. Una eventualità disastrosa, una bomba sociale. Almeno 20 mila lavoratori che vanno a casa.

D. Ma l'Ilva così com'è messa è in grado di stare sul mercato?

R. L'Ilva ci è sempre stata sul mercato a dispetto delle sue crisi, è il primo insediamento siderurgico di Europa. Ha problemi di sicurezza da risolvere, deve fare i conti con un certo accanimento giudiziario e con gli sbandamento della politica, ma non ha problemi di produttività. Il problema vero è il mercato, la crisi riguarda tutto il settore della siderurgia e dei semilavorati. Se la domanda riprende, Ilva sta sul mercato.

D. E quindi lo scudo penale per cui ArcelorMittal lascia è un alibi?

R. Può anche esserlo in questo contesto, ecco perché va subito ripristinato, per consentire al governo di trattare e di farlo non in una condizione di inferiorità.

D. Perché riscrivere l'accordo?

R. Vede, oggi ArcelorMittal deve fare i conti con 2 milioni di perdite al giorno e un costo di 1,1 miliardi per la bonifica ambientale dell'insediamento produttivo, bonifica da realizzare entro il 2023, che considerati gli eventuali imprevisti salgono tranquillamente a 1,5 miliardi. A questo si aggiunge la crisi del settore. È evidentemente un investimento in perdita per il gruppo. Ovvio voglia disfarsene. Lo stato deve trattenere il gruppo rinegoziando le condizioni.

D. Su quali basi?

R. È di tutta evidenza che il piano industriale così come era stato formulato non regge. Due i punti chiave della trattativa. Il primo, il ripristino dello scudo penale che serve a dire ad ArcelorMittal che non deve temere azioni della magistratura e che il governo mantiene la parola data. Aggiungo che sarebbe un segnale di serietà non solo per altri investitori stranieri ma per gli stessi imprenditori italiani che dello stato italiano si fidano poco e, tra burocrazia elefantiaca, regole ballerine e imposizione fiscale, preferiscono andare all'estero.

D. Il secondo punto?

R. Rinegoziare il piano di risanamento ambientale. Il governo dovrebbe avocare con decreto urgente tutto il processo di bonifica, spalmando il relativo costo in dieci anni sui bilanci di Arcelor. Questo taciterebbe le proteste dei cittadini, che si sentirebbero rassicurati sulla tutela della salute e la messa in sicurezza del territorio e questo prima del 2023. E dall'altro aiuterebbe ArcelorMittal a superare la fase attuale di crisi.

D. E gli esuberi?

R. Dilazionando i costi di bonifica, i 5 mila esuberi ad oggi previsti potrebbero essere ridotti. Sarebbe una delle contropartite.

D. Al momento è muro contro muro.

R. Questa crisi è figlia di un arrocco generalizzato: ci ha messo del suo il pubblico, probabilmente anche la magistratura, e il rapporto con il territorio non ha aiutato; poi gli investitori stranieri che stanno alle regole e delle regole però anche si approfittano quando i fatturati calano. Se il mercato riprende, tutto si appiana.

D. Il governo italiano potrebbe decidere di aprire a nuove cordate.

R. Questo è il momento peggiore per andare a cercare nuovi investitori. Non si sa quando si esce dalla crisi. Nessun investitore con intenzioni speculative metterebbe dei soldi nel ginepraio che oggi è l'Ilva. Con tutti i costi certi che ci sono, i rendimenti incerti e il rischio tra l'altro, senza scudo, di fine pure in galera nel frattempo che si eseguono i lavori di risanamento ambientale del sito. Conviene tenersi ArcelorMittal.

D. Resta in campo l'alternativa di una sorta di nazionalizzazione, con cassa depositi e prestiti che entrerebbe con una serie di imprenditori privati che poi rileverebbero la proprietà.

R. Andrebbe chiarito come Cassa e depositi e prestiti possa investire in una società in perdita. E poi servirebbe una nuova procedura di gara, con tempi che si allungherebbero a dismisura. Con tutti i rischi che questo comporta per la produttività degli altiforni e per la bonifica che slitterebbe di altri anni. Non vorrei che poi finisse con Bagnoli che dopo 25 anni è ancora in attesa... Per non parlare poi della Commissione europea e di come questa qualificherebbe l'intervento di Cdp, come aiuto di stato o meno.

D. Nessuna alternativa al gruppo franco-indiano?

R. Un investitore prudente ora sta alla finestra e non tenta nuovi business. Questo è un dato di fatto imprescindibile.

D. Nella sua Puglia ci sono alternative economiche all'Ilva?

R. Ci sono filoni produttivi tradizionali che grazie alle nuovo tecnologie e all'internazionalizzazione si stanno riposizionando sul mercato: l'agroalimentare, con il rilancio delle coltivazioni storiche, il turismo, la meccatronica, il calzaturiero, il tessile, lapideo. Oggi rappresentano il 30% del pil della Puglia. Da soli non bastano.

D. La sua università ha una spin off che nasce come acceleratore di impresa, la Lum enterprise. Che fa?

R. È finanziata dallo Sviluppo economico, ha partner come Google e il Mit di Boston. Forniamo supporto alle imprese per declinare le loro produzioni in termini moderni.

D. E come va?

R. Tra la sopravvivenza e la vitalità. Ci sono più di 200 aziende pugliesi che si stanno giocando la sfida dei nuovi mercati.

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