Il dl Salvini con la stretta contro gli sbarchi dei migranti non è retroattivo. Ma la protezione umanitaria, oggi abrogata, non può essere concessa nelle cause in corso soltanto perché lo straniero risulta integrato in Italia e il suo paese di provenienza è in fiamme: bisogna verificare se l'eventuale rientro in patria priverebbe il richiedente dei diritti umani al di sotto del nucleo ineliminabile della dignità personale. Lo stabiliscono le sezioni unite civili della Cassazione con la sentenza 29459/19, pubblicata il 13 novembre, che chiude un contrasto di giurisprudenza.
Tempo e atto. Il giro di vite introdotto dal decreto legge 113/18 non si applica alle domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima del 5 ottobre 2018, data di entrata in vigore del provvedimento; le istanze devono essere scrutinate in base alle vecchie regole ma in caso di accoglimento scatta il permesso di soggiorno per casi speciali ex articolo 1, comma nono, del dl Salvini. Che non si applica alle cause in corso perché il diritto alla protezione è espressione di quello di asilo tutelato dalla Costituzione e sorge al momento in cui lo straniero arriva in Italia in condizioni di vulnerabilità per il rischio che siano compromessi diritti umani fondamentali. È tuttavia con la domanda che lo straniero esprime il suo bisogno di tutela: il momento in cui viene presentata l'istanza individua il complesso delle regole applicabili.
Interpretazione estensiva. Il decreto Salvini ha abolito la protezione umanitaria sul rilievo che si trattava di una norma dai «contorni incerti» che ha lascito «ampi margini» a «un'interpretazione estensiva» contraria alla finalità di tutela temporanea dell'istituto. Al suo posto ha introdotto una serie di permessi di soggiorno per ipotesi precise: calamità naturale; atti di particolare valore civile; cure mediche; vittime di violenza domestica e di sfruttamento lavorativo; minori. È introdotta poi la protezione speciale come norma di chiusura del sistema: dura un anno, contro i due della protezione umanitaria, e non è convertibile in permesso di soggiorno per motivi di lavoro a differenza del passato.
Omessa valutazione. Il ricorso del Viminale viene accolto contro le conclusioni del sostituto procuratore generale: il titolo viene riconosciuto al cittadino bengalese solo perché oggi lavora alle dipendenze di un datore italiano. Ma il giudice non compie la necessaria valutazione comparativa: bisogna verificare la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente rispetto al paese di origine; ai fini del permesso speciale, dunque, conta se lo straniero rischia in prima persona al di là del contesto generale.
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